Gli ordini vietano i saccheggi, perché la distruzione dei villaggi dovrebbe avere solo un valore punitivo ed intimidatorio, per distogliere la popolazione dall’appoggio ai partigiani.
Spesso però le truppe italiane fanno man bassa delle scorte alimentari, in parte se le mangiano ed in parte le usano per avviare lucrosi traffici.
In alcuni casi invece, si comportano in maniera contraddittoria, da un lato devastando e uccidendo, dall’altro aiutando la popolazione appena colpita. Non hanno le idee molto chiare.
«Quando usciamo, cara sorella, dobbiamo fare lunghe marce, sapessi quanti chilometri abbiamo dovuto fare ieri per arrivare sul posto dove abbiamo fatto il rastrellamento, sessanta chilometri. Questi comunisti li prendiamo mentre dormono, li disarmiamo e portiamo via; abbiamo preso loro tutto il pollame, ed oggi il comandante ci ha preparato un bel rancio con tutti i polli che abbiamo rapinato per le case…»
Dalla lettera di un carabiniere del 15 novembre 1941
«Cara Tota,
ora ti racconterò di nuovo i disastri che stiamo facendo, oggi stesso siamo rientrati nel medesimo accampamento dove si stava pochi giorni fa, perché eravamo partiti di nuovo con il treno per andare ad abruciare due paesi di ribelli, e così non ti spiego che stragge abbiamo fato, e che bottino di robe borghesi abbiamo fatto, ed io carico come un mulo e portavo due vestiti da uomo da sciatore più un paio di pantaloni alla zoava tre lenzuoli un paio di gambali una borsa nuova da studente un paio di scarpe da donna, che anche a te stanno bene, poi due paia di galosce da donna alte un paio di scarpe da donna basse due tovaglie dodici fazzoletti di seta grandi per la testa, ed ora ho venduto umpo, perché non potevo più portarlo, per la fatica che si faceva, ed ho venduto i due vestiti da uomo e i pantaloni alla zoava e due lenzuoli di panno e un orologio ed ho preso L. 800 in tuto, ma sapesti quanto la piango tutto questa robba. Perché penso che a casa ogni vestito erano mille lire, invece si deve vendere quasi a uffo, avevo preso anche due prosciutti, ma quelli appena presi si siamo messi tutti gli amici a mangiare. E se sapesti quanto robba ci stava da prendere, ma sulle spalle e farci chilometri e chilometri, non si può e quanta robba che ancora tengo non so cheme devo fare, perché tra giorni si andrà di nuovo a fare il medesimo verso in qualche altro paese, e questa robba che tengo la devo vendere per forza, perché non si può correre nemmeno per difendersi, e da molto fastidio, almeno se si potevano fare i pacchi, allora si che andava bene, ma loro sono ufficiali e la portano appresso con i muli»
Dalla lettera di un soldato italiano del 4 luglio 1942
«Li lasciamo con quei pochi stracci che hanno addosso, tutto il resto è nostra preda. Dapprima catturiamo gli uomini, le pecore, le vacche, il pollame che ce n’è tanto! Poi andiamo a saccheggiare le case e ci prendiamo tutto quello che possiamo portarci sulle spalle, infine concludiamo la pagliacciata appiccando il fuoco alle case; ma noi delle compagnie mortai non abbiamo fortuna perché stiamo sempre dietro e ci resta poco. Sono arrivato in tempo per racimolare 3 kg di lana, 6 matasse (…). Poi ho un tappeto: questa gente qua i tappeti li usa come grembiuli; dunque ho arraffato solo quello che per caso è stato lasciato, altrimenti, non avrei preso nulla. Provo un rimorso a vedere questi miseri bambini che piangono. Poveri bambini, sono rimasti nudi, senza pane, me ne dispiace, ma qui ci sono i militi fascisti che non fermano davanti a nulla, sono come la grandine»
Dalla lettera di un soldato italiano del 25 novembre 1941
«Da una parte [gli italiani] incendiano villaggi e deportano selvaggiamente le popolazioni nei campi di concentramento. Dall’altra ci sono i reparti che raccolgono i fuggiaschi, li riconducono sulle macerie fumanti delle loro case, gli danno un po’ di viveri, e gli stessi soldati li aiutano a ricostruire le case distrutte dal fuoco. Cose da pazzi!»
Da una lettera di Edvard Kardelj a Tito del 29 marzo 1942
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