Lubiana si trova nei primi mesi di occupazione sospesa in un limbo irreale.
All’atto dell’annessione della Provincia si era previsto per essa l’autonomia; la lingua slovena, bandita da quasi un ventennio nelle aree annesse all’Italia dopo la Grande guerra, è esplicitamente riconosciuta come la lingua che viene parlata dalla popolazione. Allo sloveno si affianca l’italiano; cambiano i nomi delle vie; ma la politica di occupazione sembra molto più blanda delle voci che provengono dalla vicina zona di occupazione tedesca.
Le cose cambiano a cavallo fra 1941 e 1942: il crescente attivismo del movimento partigiano induce le autorità di occupazione a una decisa virata verso il pugno duro, propugnata del resto dal primo momento dal più alto comandante militare, generale Robotti.
Alla fine di febbraio del 1942 la capitale slovena viene interamente circondata di filo spinato per una lunghezza di quasi 30 km: la città diventa di fatto un enorme campo di internamento da cui non si può nè entrare nè uscire.
Oggi il tracciato di quel filo spinato è un percorso ricreativo, immerso nella natura ma memore del passato: innumerevoli sono le targhe, le scritte, le indicazioni per far sì che chi vi passa comprenda ciò che è avvenuto.
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