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A ferro e fuoco.

L’OCCUPAZIONE ITALIANA DELLA JUGOSLAVIA 1941-1943

A ferro e fuoco.

   L’OCCUPAZIONE ITALIANA DELLA JUGOSLAVIA 1941-1943

Il campo di Renicci, in provincia di Arezzo, è attivo dall’autunno del 1942 ed ospita alcune migliaia di deportati provenienti dai campi di Arbe e Gonars, ormai stracolme.
Originariamente previsto per prigionieri di guerra, viene riconvertito in corso d’opera ma mai ultimato. Di conseguenza, anche se il progetto prevede la realizzazione di una baraccopoli, nel corso dell’inverno i deportati sono costretti a vivere sotto le tende.
Anch’essi soffrono di grave denutrizione.

«Ad ogni gruppo di quindici di noi davano una tenda che dovevamo poi montarci da soli; infatti, a Renicci, non erano pronte né le baracche né le tende. Ma, dato che al nostro arrivo era già buio, quella sera non siamo stati in condizione di allestire la tenda, e perciò, nonostante ci fosse la neve e facesse molto freddo, la prima notte l’abbiamo passata completamente all’aperto. Finalmente il giorno dopo abbiamo montato la nostra tenda: era collocata vicino al filo spinato che separava i primo dal secondo settore, e portava il numero 35. La terra era molto umida e così abbiamo cercato delle frasche da sistemare sul fondo, per poi poggiarvi le coperte. Mai i guardiani non ce l’hanno permesso e, chi veniva sorpreso a spezzare dei rami dalle querce, passava dei guai molto seri con loro. Così, la maggior parte di noi ha dovuto mettere direttamente sul fango le proprie coperte e, in poco tempo, si è così ammalata. (…) Io ho vissuto sotto una tenda sino alla primavera del ’43: in ogni tenda stavamo quindici o venti persone, ma poi hanno allestito anche tendoni per sessanta internati… »
Dalla testimonianza di un deportato a Renicci
«Dunque, quell’inverno (1942-43) fu terribile. S’arrampicavano sulle querce, mangiavano le ghiande e poi morivano per male alla pancia. Ne morivano a decine ogni giorno e con il carro a quattro ruote portavano i cadaveri a Micciano, ma anche ad Anghiari. Alla mattina verso le 10, 10,30 c’era il "mercato". Gli operai portavano dentro, con i barrocci di rena, il tabacco e lo vendevano agli internati in cambio d'orologi e oggetti d’oro. C’erano dei barrocciai fiorentini, me ne ricordo uno di Pontassieve, che ci hanno fatto i soldi, tanti soldi! Alla porta c’era il controllo dei carabinieri, mi ricordo di uno del Borgo che non era schietto, ma non frugavano nella rena. Portavano foglie di tabacco, sigari, trinciato. Fumavano sempre, sembrava che volessero togliersi la fame fumando»
Dalla testimonianza di un sorvegliante del campo di Renicci
È possibile e in che termini, paragonare i campi italiani per internati slavi con i lager nazisti?
Testimonianza di Mirko Troha, campi di Rab-Arbe e Renicci, dal documentario Strah ostane (La paura resta), RTVSLO, 2014
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